Violenza sessuale, dal Centro Aiuto Donna Lilith parla la psicologa Maya Albano

L’immaginario diffuso, le reazioni della società, denunciare o non farlo mai: il percorso psicoterapeutico

Negli ultimi giorni si sente molto parlare di violenza, nello specifico di stupro, in televisione e sui giornali. Il tema, sempre di estrema rilevanza, è stato affrontato maggiormente nell’ultimo periodo, soprattutto dall’uscita del video di Beppe Grillo. Il garante del M5S lunedì 19 aprile, si è ripreso in un filmato poi pubblicato sui social, difendendo il figlio indagato con altri coetanei con l’accusa di stupro nei confronti di una ragazza. L’elemento che probabilmente più si è diffuso dal video è il fatto che Grillo abbia commentato il tempo trascorso da quella sera alla presentazione della denuncia da parte della vittima. Si tratta di otto giorni in questo caso, interpretati come un’attesa valida a placare la vicenda o delegittimare l’accusa.

Ma quanto tempo occorre prima di capire la violenza subita, quali sono gli elementi che portano a denunciare giorni dopo o a non denunciare affatto, come è emerso sia capitato a molte vittime?

L’argomento e l’approccio psicoterapeutico verso chi ha subito violenza sessuale è affrontato da Maya Albano, psicologa e coordinatrice del Centro Aiuto Donna Lilith delle Pubbliche Assistenze Riunite di Empoli e Castelfiorentino. Il Centro Antiviolenza, attivo sul territorio dal 2002, conta 13 sportelli nell’Empolese Valdelsa, dispone di tre case rifugio ad indirizzo segreto e di Casa Matilda, una struttura per l’autonomia. Lilith accoglie donne e minori vittime di violenza, in ogni sua forma.

Maya Albano, psicologa e coordinatrice del Centro Aiuto Donna Lilith
Maya Albano, psicologa e coordinatrice del Centro Aiuto Donna Lilith

Perché molte vittime tendono a denunciare tempo dopo l’accaduto o decidono di non sporgere mai denuncia?

Sul tema della violenza sessuale tutt’oggi ci sono dei forti stereotipi che impediscono alle vittime di chiedere aiuto e far emergere il problema” – spiega la psicologa Albano. Spesso “si continua a pensare che la violenza sessuale avvenga ad opera di estranei, spesso rappresentati dai media come degli sconosciuti, magari per strada. In realtà la maggior parte delle violenze sessuali avvengono ad opera di una persona che è legata affettivamente alla vittima, come un compagno o un ex, il che rende ulteriormente difficile per chi ha subito l’abuso poter sporgere denuncia. Questo perché può provare fatica nell’incriminare una persona con cui ha costruito un progetto di vita, magari è il padre dei suoi figli, per cui vive anche dei sentimenti ambivalenti”.

La tutela delle vittime di violenza domestica e di genere è disciplinata dalla legge n.69 del 2019, nota come Codice Rosso. Approvata dal parlamento, è volta a rafforzare la tutela delle vittime tramite interventi sul codice penale e sul codice di procedura penale. Per quanto riguarda il diritto penale, la legge ha introdotto quattro nuovi delitti: deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate, il delitto di costrizione o induzione al matrimonio, la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento.

La legge, nel delitto di violenza sessuale, inasprisce le pene e amplia il termine concesso alla persona offesa per sporgere querela, da sei a dodici mesi. Il provvedimento inoltre, rimodula e inasprisce le aggravanti quando la violenza è commessa in danno di minore.

Qual è l’immaginario diffuso della violenza sessuale? Perché in diversi episodi chi ha subito violenza si trova ad essere “esaminato” dalla società?

Albano cita una ricerca dell’Università di Firenze sulla percezione della violenza sessuale. “E’ emerso che poco più che nella metà degli intervistati si riconosceva che bastava il dissenso verbale della vittima per poter configurare una violenza sessuale, perché nella nostra idea l’atto si verifica solo quando c’è una minaccia, con arma o costrizione fisica. Questo è l’immaginario che abbiamo ma non corrisponde alla realtà. La vittima può essere intimorita da atteggiamenti che non necessariamente hanno a che fare con una costrizione fisica. Quando questo non avviene, anche le vittime stesse possono incorrere nella confusione di pensare di non essere vittime di violenza sessuale”.

Un altro aspetto importante, sottolineato dalla psicologa del Centro Lilith, sono le reazioni della società. “Quando una donna comincia a valutare la possibilità di denunciare la violenza già sa che verrà scandagliata la propria vita sessuale, le proprie abitudini, aspetti che ciascuno di noi tende a proteggere. Non infrequentemente c’è un rischio di vittimizzazione secondaria, di ciò che avviene quando le donne scelgono di raccontare ciò che hanno subito e si trovano di fronte a risposte sociali che vittimizzano ulteriormente”.

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Perché la società risponde così?Manca un’educazione affettiva di base, la capacità di comprensione della difficoltà dell’altro, di come si può sentire – continua Albano – c’è una superficialità e una tendenza a cercare la mala intenzione dell’altra persona. Sembra che si debba comunque avere un ruolo, una propria responsabilità”. Tutto questo “rinforza degli aspetti che già la vittima sente per sé stessa”.

Cosa succede a chi non riesce a parlare dell’abuso subito?

Di fronte ad una violenza sessuale facciamo tutto quello che le persone fanno riguardo ad eventi traumatici: mettiamo in atto difese dissociative, difendendoci dal trauma provando a minimizzare e a convincerci che non sia accaduto effettivamente. In tante vittime di violenza sessuale si inibiscono i ricordi, è difficile focalizzarsi sugli eventi precisamente e questo purtroppo può incidere sull’aspetto di credibilità delle vittime stesse”. Per questo anche nell’aspetto giudiziario una conoscenza di tipo psicologico è fondamentale per accogliere la denuncia di una persona, rimarca Maya Albano, perché “involontariamente il trauma tende a rimuovere l’accaduto ma volontariamente si può tendere a proteggere il responsabile”. Inoltre, “quando la violenza avviene sotto uso di alcol, è un aggravante, non una scusa”. L’aspetto però “non coincide con la percezione sociale rispetto a una deresponsabilizzazione dell’autore, piuttosto che una colpevolizzazione della vittima stessa”.

Nell’esperienza del Centro Aiuto Donna Lilith, perché alcune vittime non hanno denunciato?

Perché si colpevolizzano, hanno paura di non riscontrare credibilità e possono proteggere l’aggressore. Il Centro ha affrontato diversi casi negli anni e possiamo affermare che la violenza sessuale non è così scontata che venga denunciata”.

A tal proposito è nato l’hashtag sui social, dopo la pubblicazione del video di Beppe Grillo, #ilgiornodopo. Molte sono le storie emerse di persone che in passato hanno subito violenza sessuale, non reagendo nel tempo.

Raccontandosi anni dopo, il lavoro di psicoterapia “si fonda sugli aspetti post traumatici, perché nella maggior parte dei casi gli effetti della violenza sessuale riguardano l’immagine che le vittime hanno di sé stesse e il rapporto che poi hanno con gli altri”. I nodi che tenta di sciogliere il percorso di psicoterapia sono, come ha detto infine Albano, “la difficoltà nello stabilire relazioni significative e l’impossibilità di fidarsi degli altri”.

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